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La geografia dell'eleganza e il linguaggio dello stile

La geografia dell'eleganza e il linguaggio dello stile
L'abito borghese, simbolo del ruolo sociale in occidente, corrisponde alla dishdasha araba, come l'hakama giapponese riveste gli stessi significati dello sherwani indiano. Attraverso la moda si ricostruisce la geografia dell'eleganza maschile.
 
Il viaggio nello stile della moda maschile è lungo e vario e corrisponde alla quantità dei significati di eleganza che si possono incontrare nelle culture sedimentate praticate nei quattro angoli del pianeta. Che sono divise, diverse e spesso impegnate in un dialogo che le porta perfino a intrecciarsi senza confondersi, ma esprimono sempre una stessa specificità perché ovunque il senso dell’eleganza maschile risponde ai codici che le comunità si sono auto-assegnate per esprimere il proprio carattere. Forse, molto più che la moda femminile, lo stile maschile può descrivere una sorta di geopolitica culturale. Una caratteristica che appartiene al carattere della moda, che non a caso è un sistema di segni e di significati capace di condensare la cultura di un’epoca, di un luogo, di una storia. Che è variabile non solo per come variano le condizioni socio-economiche ma anche per come cambiano le regole che condizionano la vita quotidiana nelle varie parti del mondo.
 
Probabilmente, solo noi uomini occidentali, condizionati dalle regole dell’abito borghese (il completo giacca-pantaloni-camicia con o senza gilet) siamo legati a un criterio che confonde lo stile con l’eleganza, senza considerare che le due parole esprimono concetti diversi e che il primo si riferisce alla personalità, la seconda alla circostanza. Eppure, il concetto di stile riferito alla persona nasce proprio in Occidente: «Le style est l’homme même», lo stile è l’uomo stesso, diceva lo scienziato naturalista illuminista George-Louis Buffon nel suo discorso di insediamento all’Académie française nel 1752, separandolo così nettamente dall’eleganza, intesa come caratteristica dell’acconciatura e del vestire, e presupponendo che lo stile prescindesse dall’abito, elegante o meno, che si indossa. Da qui discende che in Occidente basta che un uomo indossi «l’abito» per assolvere i doveri di rappresentanza in più di un’occasione quando invece in altre culture il completo maschile è solo un segno di appartenenza, quindi uno dei tanti stili possibili, e non «lo stile» che determina l’eleganza.
 
Nel 2004, Tom Ford, all’apice del suo successo come designer di Gucci e di Yves Saint Laurent con una moda che era il risultato di un esercizio che legava raffinatezza e sensualità, dichiarò che l’uomo più elegante del mondo era Hamid Karzai, appena eletto presidente dell’Afghanistan. La dichiarazione sorprese molti perché il politico di etnia pashtun non rispondeva affatto ai criteri solitamente in auge per definire l’eleganza maschile. Con le sue camicie senza colletto, la giacca lunga (una variante dell’achkan pakistana) sopra pantaloni coperti da una cappa con il bordo ricamato e il cappello a bustina in karakul, lo stile di Karzai era quanto di più lontano possibile sia dagli abiti che disegnava Ford, sia dalle abitudini occidentali. Eppure, non c’era dubbio che il neoeletto presidente afghano avesse uno stile che lo contraddistingueva da chiunque altro per personalità e modi eleganti senza relegarlo in quella categoria di «abbigliamento tradizionale» con la quale, sbagliando, spesso siamo abituati a definire gli abiti maschili di culture e luoghi geografici lontani da noi.
 
La geopolitica dell’abbigliamento, quindi, ci porta a evidenziare come le definizioni siano relative e che l’abito che noi chiamiamo «tradizionale» per altre culture ha le stesse caratteristiche che per noi riveste il completo borghese, e cioè un abito che gli altri potrebbero definire altrettanto tradizionale. Tanto più che se per gli uomini occidentali lo stile e l’eleganza si mettono in gioco per assolvere a determinate incombenze di rappresentazione sociale, lo stesso vale per l’abbigliamento non occidentale.
 
Per un uomo di cultura araba, essere eleganti vuol dire indossare la dishdasha (si chiama anche thawb, kandura e suriyah), la tunica generalmente bianca che arriva alla caviglia, sovrapposta dalla djellaba (in Marocco, però, così si chiama la tunica) che è un mantello generalmente nero con i bordi ricamati in oro, e coprire il capo con la keffiyeh, una sciarpa quadrata lavorata a pied-de-poule bianca e nera o bianca e rossa o solo bianca per l’estate, fermata dall’iqal (o agal), una banda che si ripiega come un otto. Se questa è l’eleganza, sta allo stile dell’uomo arabo scegliere per la dishdasha il doppio polso che si richiude con i gemelli in oro e pietre preziose o quello semplice oppure se lasciare le maniche larghe come quelle della tunica. Sempre alla sua sensibilità sta la scelta del colore della djellaba e della keffiyeh e la decisione se sotto la dishdasha indossare la tunica o no e se sotto la keffiyeh inserire il taqiyah, una specie di berretto in cotone traforato. Le stesse differenze tra regole dell’eleganza e stile personale si trovano in Marocco, dove la tunica si chiama djellaba, in testa si indossa il fez (un cappello cilindrico per lo più rosso con un pompon nero) e ai piedi le babouches di colore abbinato alla tunica. Colori che si annullano nelle occasioni iper eleganti (lo sposo al matrimonio, il re all’incoronazione o alle celebrazioni ufficiali), ma anche nelle situazioni di lutto (al funerale e nei tre mesi successivi alla morte del padre), quando anche il burnus (il mantello con il cappuccio) deve essere tassativamente bianco.
 
Ecco che, quindi, le regole dell’abbigliamento corrispondono ai riti sociali. Infatti, come nel mondo occidentale il completo giacca-pantaloni-camicia esprime la rappresentazione sociale del potere maschile, così in quello che per comodità chiamiamo mondo arabo l’unificazione tra lo stile e l’abbigliamento livella le classi socio-economiche alla reputazione di «buon musulmano», che in linea teorica deve essere la stessa per i ricchi e per i poveri.
 
Volando un po’ più a Oriente, in Giappone c’è l’estrema riprova di quanto lo stile corrisponda alla cultura. Gli uomini giapponesi, infatti, hanno adottato in tutto e per tutto l’abito occidentale ma si sono riservati l’hakama per le occasioni importanti. Alla ricerca di segni appartenenza, sono molti i giovani che indossano la tipica gonna-pantaloni legata in vita e lunga fino alle caviglie, sia nella versione con le gambe divise (umanori, nata per poter cavalcare) sia in quella a gonna (gyoto). Naturalmente, indossate con i tabi (i calzini che separano l’alluce) e gli zori (i sandali infradito in paglia). Esattamente la stessa cosa sta succedendo in India, dove l’occidentalizzazione dell’epoca inglese sta lasciando il posto a una riscoperta dello stile autentico, quello che ai nostri occhi trasforma chiunque lo adotti in un maharaja o in un attore di Bollywood. Ma non possiamo non arrenderci davanti all’originalità di un uomo che indossa lo sherwani, la classica redingote in seta dal taglio diritto che copre la casacca, sopra i pantaloni jodhpur. Infatti, quello è uno stile che soltanto a guardarlo viene da dire «chapeau!».
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